Ombre sull'Ofanto by NIGRO Raffaele

Ombre sull'Ofanto by NIGRO Raffaele

autore:NIGRO Raffaele
La lingua: ita
Format: epub, mobi
ISBN: 88-09-21690-3
editore: Camunia editrice
pubblicato: 1992-05-14T16:00:00+00:00


29.

Lo scorreggìo dell’Ape Piaggio mi chiamò alla finestra. La nuvolaglia che copriva da giorni la valle si era incupita in una nebbia pallida ma fitta, mentre mio padre stava partendo per non so che incombenza. Intravidi sul cassone la piccola bara bianca e mi precipitai giù per le scale. Ma non feci in tempo a raggiungerlo, aveva già preso la via delle campagne. Lo inseguii con la mia auto. La strada deserta si incuneava tra avvallamenti silenziosi e alberi radi che affioravano con sagome spettrali. Con l’autunno che avanzava era diventato tutto spoglio. Qua e là si materializzavano casupole di lamiera e ondulina, silos e case coloniche in rovina, al centro di poderi e frutteti. Era tutto in abbandono. I coloni li avevano avuto in assegnazione dai governi democristiani negli anni Cinquanta e avevano pian piano abbandonato case e campi, fuggendo verso Settentrione, in Germania, in Piemonte e in Lombardia. Dal vecchio mondo di contadini erano nati paesi improvvisati di metalmeccanici e impiegati.

Inseguendo mio padre, inghiottito dalla nebbia tra le vigne in abbandono, con l’uva e le olive marcite per terra, più che guardare, ripensavo a questo nostro Far West nato dal rifiuto della terra per il cui possesso era stato versato sangue. Una volta, raccontava mia madre, attraversando quelle campagne si sentiva cantare; cantavano i vignaioli, i mietitori, le lavandaie chine sulla riva dell’Ofanto, i carrettieri: era tutta un’armonia di voci. Questo accadeva prima che lì piombasse il silenzio e a tenere concerto fossero trattori, camions e automobili. Mia madre ne parlava con nostalgia, come di un bene perduto, come se all’improvviso fossero spariti dagli alberi gli uccelli canterini. E mi chiedeva: «Tu non senti tristezza a scoprire che queste cose belle sono sparite?»

Io mi stringevo nelle spalle, non avevo mai sentito cantare contadini, e poi avevo solo voglia di cantare io, libero e ubriaco di vento, lanciato a centocinquanta all’ora in una strada notturna.

Scesi alla diga e salii verso Alberinpiano. Su quelle alture tagliate dalla via Appia, un tempo c’erano state ville abitate da ricchi romani. In qualcuna di quelle ville aveva trovato rifugio Orazio, scendendo da Roma per un viaggio narrato nella Satira quinta. In una di quelle ville era affiorato agli inizi del secolo un sarcofago in marmo raffigurante una ragazza dormiente. E, solo da un’estate, era emerso sotto le piccozze degli archeologi anche un calidarium dal pavimento a mosaico. Il mosaico raffigurava un cavallino rampante. Tutta la zona era ricca di tombe, che venivano nottetempo distrutte per evitare che la Sovrintendenza ponesse veti alla costruzione di nuovi edifici. Al bivio presi il rettilineo per Canosa. La strada mi invogliava ad accelerare, ma non la nebbia, dalla quale affioravano i fari delle auto. Dopo circa dieci chilometri, svoltai in un tratturo a sinistra e mi accostai all’Ofanto. Spensi il motore e scesi in perlustrazione, ma non c’era traccia dell’Ape. Proseguii, sempre più convinto di cercare un ago in un pagliaio. «Va’, va’, brutto fesso» pensavo, parlando senza parole a mio padre, «fatti ammazzare, che io resto padrone del tuo conto bancario».



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